Lei ha una malattia importante, molto importante: ha un sarcoma alla radice della coscia sinistra. Possibilità di errore? Così”. Sovrappose l’indice e il pollice lasciando uno spazio minimo.
Questo, più o meno, è quanto mi disse il professor Roberto Biagini al nostro primo incontro, il 3 settembre del 2012, dopo aver esaminato la risonanza magnetica. Quella stessa risonanza che, secondo il parere del primario ortopedico, che aveva in cura tutta la mia famiglia da quasi trent’anni, evidenziava “uno strappo muscolare con ematoma”. Pertanto la terapia consisteva in trattamenti con la tecar, impacchi umidi, camminate dentro l’acqua. Dopo un mese stavo così male, in preda a dolori lancinanti, che alla visita di controllo alla Icot di Latina il primario decise l’immediato ricovero. Tralascio il periodo
trascorso alla Icot, durante il quale la diagnosi rimase immutata e venne concordato l’intervento chirurgico, fissato per il 3 settembre. Tre giorni prima dell’operazione l’ortopedico, che si trovava all’estero, ebbe un ripensamento imprevisto: “La cosa non mi convince, ti ho fissato un appuntamento con il professor Biagini, capisci? Niente meno che il professor Biagini”, ripeté con enfasi. Non esitai a dire che non lo conoscevo, ma la stima professata dal mio ortopedico mi spinse ad andare alla visita nonostante le precarie condizioni: ero ormai allettato da un mese, la gamba, che somigliava sempre più a una zampa d’elefante, mi faceva male quasi in ogni posizione, rendendo problematico anche il viaggio in ambulanza. Mi bastò vedere il nuovo primario per provare una subitanea fiducia, nonostante la frase, drammatica quanto lapidaria, con cui mi annunciava che avevo un tumore. Io, un tumore? Io che avevo fatto di tutto per scongiurarlo, almeno così ritenevo, sport, camminate, cibo controllato; io che avevo smesso di fumare ventidue anni prima proprio per scongiurare l’insorgere della malattia più temuta, io un tumore? La biopsia a confermato la diagnosi, puntualizzando il nome e cognome del nemico: "sarcoma pleomorfo di alto grado indifferenziato". “Non è proprio il peggiore, ma è uno dei peggiori”. Alla drasticità del professor Biagini ormai ho fatto l’abitudine, come quando gli chiesi, poco tempo dopo l’intervento, se la malattia poteva tornare: “Sempre, comunque e dovunque”, fu la risposta, peraltro scontata. Dopo il risultato della biopsia, è cominciata la seconda parte del mio calvario. Si è deciso di procedere con due o tre cicli di chemioterapia per cercare di ridurre la massa del
tumore, che nel frattempo continuava a ingrandirsi: da 8 centimetri a 11 a 14. La chemioterapia, però, anziché ridurre la massa tumorale ha scatenato, già al primo ciclo, tutti gli effetti collaterali che di solito si manifestano dopo due, tre applicazioni: dalla nausea alla disappetenza al vomito alla caduta verticale dei globuli bianchi. Era il 12 ottobre,
giorno della scoperta dell’America, e io scoprivo di non riuscire a sopportare l’epirubicina e l’ifosfamide. Sono rimasto in isolamento per quattro giorni. Dopo i globuli bianchi, sono precipitati anche i rossi. Non avevo neanche la forza non dico di parlare, ma neppure di sollevare la testa. “Lei è un “homo fragilis”, ha detto uno dei medici del
reparto, dopo che venne sciolta la prognosi riservata. “Homo fragilis”, perché non ho sopportato il liquido incolore e rosso che per tre giorni mi è entrato nelle vene? Perché non ce l’ha fatta a uscire indenne dalla caverna buia e melmosa, dove il liquido temuto mi ha fatto precipitare? La caverna della materia più sordida, popolata dai mostri orrendi della mia fantasia divenuta realtà. Dimesso dal reparto, con mio grande sollievo, sono tornato a casa, ma la chemio mi ha raggiunto anche fra le mura domestiche: l’emoglobina ha avuto un calo preoccupante e sono tornato in
ospedale per fare una trasfusione in day hospital (ne ho fatte in tutto diciannove). Mentre attendevo, la grande sala si è riempita di pazienti: giovani, anziani, di mezza età si sedevano diligentemente sulle poltrone allineate lungo le areti e assorbivano la loro dose di chemio, quotidiana o settimanale o mensile, non so. Una volta terminata ’applicazione, si alzavano e uscivano, come se fossero andati al bar a degustare un aperitivo. Anche vecchi curvi e malfermi sulle gambe, terminata la seduta, guadagnavano tranquilli l’uscita. Io li guardavo dalla mia posizione orizzontale, incapace di fare qualsiasi movimento, con una emoglobina scesa a 7.4. Pensavo: “Come hanno fatto tuttiquesti pazienti, in apparenza sereni, fiduciosi, a sopportare i nefasti effetti collaterali dell’alleato divenuto per me un nemico? Non hanno avuto reazioni? Sono davvero un “homo fragilis”! Ero ridotto così male che venne deciso il mio trasferimento al reparto del professor Biagini... E si arriva alla terza parte di quello che io chiamo l’evento. Il programma era: rimettermi in sesto il prima possibile e procedere all’operazione che ormai era divenuta improcrastinabile. Avevo sempre pensato, creduto, sperato che il chirurgo avrebbe rimosso il tumore conservando
quasi integre le funzioni della gamba, procedendo con la sua consacrata perizia tra vasi, muscoli, nervi. Sapevo che il problema principale erano i nervi, pertanto ritenevo di poterne uscire con una zoppia più o meno evidente. Già da
tempo mi vedevo camminare con l’ausilio di un bastone. Ma il sogno venne interrotto tre giorni prima ell’operazione: con il suo consueto modo diretto di rivolgersi al paziente, il professore mi informò che doveva procedere all’amputazione della gamba fino all’anca. Un duro colpo da assorbire: una gamba in meno significa rimanere disabile per tutto il resto della vita. Il chirurgo mi spiegò che la chemioterapia non aveva dato l’esito sperato, anzi il tumore si era ingrandito e poteva essere in pericolo la mia stessa vita. Ho scoperto in seguito che aveva raggiunto 29 centimetri, aveva cioè più che triplicato le sue dimensioni dal giorno della prima ecografia, a
luglio. Chiunque mi avesse detto in precedenza che era inevitabile l’amputazione, avrebbe incontrato il mio
risentimento. Avrei cominciato a discutere sui metodi della cosiddetta medicina ufficiale, sulle sue carenze,
talmente vistose da giustificare la sempre maggiore importanza e invasività della chirurgia, a deprecare il tempo perduto per le diagnosi sbagliate e per l’attesa di un posto letto, ma al professore ho risposto: “Se è proprio
necessario, d’accordo”. Qualunque cosa dica: “Lei ha una malattia importante” oppure: “Mi creda, abbiamo
valutato ogni possibilità: non ci resta che l’amputazione” il professor Biagini ha un modo tutto suo di convincere, di persuadere il malato. “E dopo?” gli ho chiesto “Come farò a camminare dopo?”. “Con una protesi”, mi ha risposto, come se fosse la cosa più ovvia, come se si potesse perdere una gamba senza quasi risentirne. Sarà per il modo di
guardare il paziente, dritto negli occhi per tutto il tempo della conversazione, sarà il tono della voce, deciso, ma nello stesso tempo suadente, che fuoriesce dal bianco folto dei baffi, come se dicesse: non devi preoccuparti, penso io a tutto, sarà perché ritenevo di essere arrivato al capolinea, ho detto: “D’accordo." L’operazione è stata più invasiva
del previsto. Durante l’intervento, era il 20 novembre, è stato chiamato un urologo, che ha tolto una “fettina” di un corpo cavernoso, per distaccare la massa tumorale “tenacemente adesa”, come si legge nella descrizione dell’intervento. “Si consideri fortunato”, mi ha detto a un anno e mezzo di distanza l’urologo che ha effettuato la resezione. Quasi un’eco della colorita affermazione di Biagini: “Stappi una bottiglia di spumante, Molli: quando è
venuto da noi era morto”. Sì, sono ancora vivo. Per quanto tempo non mi è dato sapere. Me lo chiedo ogni qualvolta entro nel claustrofobico tubo della risonanza magnetica, ogni qualvolta effettuo tac, radiografie, ecografie o quando
l’apparecchio della Pet mi esplora alla ricerca di addensamenti sospetti, le cosiddette “iperfissazioni”. Ma un amico, il caro Appio, più giovane di me di vent’anni, che si è ammalato, o meglio che ha scoperto di essere malato meno di un mese prima di me, è già morto. Anche il mio compagno di letto non c’è più, il dolcissimo Claudio e altri, tanti, troppi. Così come tanti si sono salvati grazie alle cure a cui non ho retto. Sì, sono ancora vivo, a distanza di un anno e mezzo dall’operazione, ma non è facile accettare di avere una gamba in meno: spesso fa male, la gamba che non c’è più, mi
dà scariche elettriche o stilettate, tanto improvvise da non poter reprimere un gemito. Talvolta è il piede che fa male, come se fosse dentro una morsa, talaltra è lo stinco che pulsa, e la “vedo” la mia gamba eterica, impropriamente definita “arto fantasma”, la vedo dov’è stata per 68 anni di camminate, di corse, di partite al pallone, di sedute a tavola e al computer. In un primo tempo avevo deciso di non fare parola con nessuno della mia menomazione, tranne logicamente la mia famiglia, e di rifugiarmi in casa. Farsi vedere in giro con un arto in meno implica domande,
espressioni e gesti di meraviglia, di partecipazione genuina o forzata, di compassione autentica, ma anche di indifferenza, di sguardi distolti all’ultimo istante, di fastidio. Migliori, come sempre, sono i bambini. Non fanno nulla per nascondere la sorpresa, lo stupore, non fanno nulla per reprimere espressioni come “Mamma, mamma: a
quel signore manca una gamba”, ma la madre è troppo occupata a guardare altrove. L’espressione più bella è stata di un ragazzino al mare. Mi ha guardato a lungo senza manifestare evidenti segni esteriori, poi con grande naturalezza mi ha detto: “Meno male che invece della gamba non hai perso un braccio, altrimenti come facevi a salutare?”.
Comunque sia, l’invalidità mi pone al centro dell’attenzione, allora visibile attraverso il gambale vuoto dei pantaloni. Perché è vero che si può supplire con una protesi, ma passano mesi di vuoto prima di riempirlo, un vuoto che trovi nel letto al risveglio, che appare all’improvviso allo specchio, il vuoto della gamba che non c’è più e pensi: non ce la farò mai senza di lei, e colei che non c’è urla la sua disperazione perché si sente ancora viva, ma sa che non potrà più essere accanto alla sorella, che non potrà mai più sorreggere questo mio busto traballante, oscillante nell’orrido vuoto che mi si spalanca di fronte. A fatica ho cominciato ad accettare l’idea di mettermi la protesi. Il primo input me l’ha dato Monica, una volontaria della Rukije – Un Raggio di Sole, l’associazione di pazienti oncologici dell’apparato muscolo scheletrico, tutti passati sotto i ferri del professor Biagini, tutti entusiasti dei risultati ottenuti. È stata
Monica a spingermi a fare la protesi, ed è stata ancora Monica a suggerirmi di andare al centro Inail di Budrio,
dopo l’esito non riuscito della prima protesi. Ora sono proprio qui, in mezzo a infortunati di ogni genere. Ma anche qui, come al Santa Lucia di Roma, ce ne sono pochissimi con la mia amputazione, fra cui Maria, giovanissima siciliana, operata, è il caso di dirlo, proprio da Biagini, un mese dopo di me. Cammino ancora con l’aiuto delle stampelle, e mi stanco dopo pochi passi. Ma non dispero di uscire da qui usando un solo “punto mobile”, come specifica la relazione della prima visita intendendo una sola stampella. Intanto continuo a scrivere, non ho mai cessato di farlo, neppure quando il dolore alla gamba mi tormentava al punto che dovevo distenderla su uno sgabello
sotto la scrivania. Da quando sono stato operato ho concluso due romanzi, in sospeso da decenni, rivisto due raccolte di poesie, cominciato il commento al Paradiso terrestre di Dante. Non dispero di poter riprendere anche il commento
al Convivio, interrotto a metà del Trattato primo. È imminente la pubblicazione di uno dei due romanzi. Mi auguro di poterlo presentare in pubblico, come ho fatto con le mie opere precedenti, e di riprendere le mie conferenze antesche, senza trascinarmi, a stento verso il tavolo dei relatori. Mi auguro di essere presentabile perché ho ancora molto da dire, con l’aiuto indispensabile di mia moglie Silvana, che non ha cessato un istante di restare al mio fianco, come è sempre avvenuto da quando ci siamo sposati 44 anni fa. E voglio riprendere a stare con i miei nipotini, come ho fatto finché sono riuscito a reggermi in piedi. So che le mie condizioni mi impediscono movimenti indispensabili, come prenderli in braccio per addormentarli o per calmarli, correre per giocare o per prevenire una caduta, insomma: so bene che non potrò più essere il nonno sportivo di prima, ma un vecchio nonno saggio, sì, che insegna loro a sollecitare l’inventiva, la fantasia, che legge storie o le inventa, insomma che fa l’unica cosa che sa fare: raccontare.
Gian Maria Molli