Caro lettore, mi ritrovo a scriverti la mia storia per farti capire che non sei solo in questa battaglia e per aiutarti a non lasciare andare mai la presa sulla tua vita, che è la cosa più importante che tu possa avere. Mi chiamo Francesca, ho 23 anni e vivo a Roma.
La mia storia comincia esatta mente 10 anni fa, nel settembre del 2000. Era un sabato sera, mi trovavo in casa con mia sorella, di tre anni più grande.
Stavo guardando la TV in camera dei miei genitori durante la loro assenza per via del lavoro. In quel momento, mi scoppiò un dolore lancinante all’avambraccio destro, un dolore che non riesco a descrivere; ricordo soltanto che in un secondo mi ritrovai con le lacrime agli occhi, gridando il nome di mia sorella per farmi aiutare. Lei, disperata, non sapendo che cosa stesse succedendo, chiamò immediata mente i nostri genitori che mi portarono subito al pronto soccorso.
Il dolore che sentivo era scaturito da un gonfiore che avevo da tempo. Tutti pensavano fosse dovuto ad una caduta avuta giocando a pallavolo, sì perché in quel periodo giocavo nella squadra del mio quartiere, avevo 12 anni, mi allenavo 4 – 6 ore al giorno con ragazze più grandi di me, che al tempo gioca vano nell’under 16. Era la cosa più bella che facevo dopo la scuola, ma quella notte cambiò per sempre la mia vita.
Al pronto soccorso mi fecero subito una lastra e consigliarono ai miei genitori di andare da uno specialista. Nei giorni seguenti iniziarono una serie di visite ed accertamenti, non riuscivo a capire il perché. Mia madre mi rassicurava dicendomi che, dopo la caduta, si era formato del liquido, che avrebbero dovuto estrarre in qualche modo, ma più tardi le cose sarebbero state ben diverse.
Mi ricoverarono all’ospedale Umberto I per fare una biopsia. In quei giorni, grazie alla mia giovane età, riuscii a superare il ricovero ridendo e scherzando. La mattina, mentre il personale addetto ripuliva la mia stanza, io cantavo a squarciagola con la playstation accesa e, insieme a mio padre, imparai a fare i fiori di carta; tanto da riempire tutto il reparto e gli infermieri.
Una volta fatta la biopsia, i miei genitori seppero che nel mio braccio dimorava un tumore maligno di 10 cm per 8 cm, il Sarcoma di Erwing. Mi dissero che avrei dovuto passare altri giorni in un altro ospedale, l’IFO.
Era quasi Natale e, con i miei genitori, andai per il primo ricovero. Prima, però, feci un colloquio con una dottoressa del reparto di oncologia medica. Non capii subito le sue parole, che furono: “Non ti preoccupare, nel tuo braccino hai delle cellule buone ed altre cattive. Dobbiamo fare una terapia per andare ad eliminare quelle cellule cattive, prima che loro uccidano le tue cellule buone. Facendo questo, però, la terapia ti darà degli effetti collaterali. Ti cadranno un po’ di capelli, ma sarà tutto normale e, visto che sei diventata da pochissimo una vera donnina, addormenteremo le tue ovaie, così staremo ancora più tranquilli”. La guardai sbalordita ed incredula alle sue parole e, usciti dalla stanza, dissi subito a mia madre che quella donna non mi piaceva, non volevo perdere i capelli per nessun motivo, e non avendo capito il senso delle sue parole, dissi: “Ma questa che vuole? Che ha detto? Io non ho capito niente!”.
Ci sedemmo sui divanetti di pelle nera che si trovano nella hall, dove mia madre, con le lacrime agli occhi, seriamente mi informava del tumore che stava crescendo in me. Iniziai a piangere, quando mi resi conto che la mia vita era in pericolo, ma con l’ingenuità e la solarità di una bambina dissi: -“E va bèh, dai…allora vorrà dire che passeremo un po’ di tempo qui in ospedale, ma se vinco io, e sappiamo entrambe che vinco io, tu mi prometti che mi compri il motorino, ok??”.
Non esitò a dirmi di sì. Iniziarono questi giorni in ospedale, feci la prima chemioterapia, passò in fretta il tempo, ridevo e scherzavo con tutti, ma soprattutto studiavo e disegnavo. Il giorno di Capodanno iniziarono a cadere le prime ciocche. Mio padre la mattina seguente mi disse: “Vieni qui che facciamo barba e capelli!”. Dopo essersi fatto la barba, cambiò la lametta e iniziò a rasare la mie testolina. Er o carina, tanto che mia madre mi chiamava “Zio Fester” (ancora mi viene da ridere).
Feci altri 2 cicli di chemio, per poi essere ricoverata a Bologna ed operata.
Presi questo viaggio come una vacanza e così furono i miei genitori (a cui nel giro di poche setti mane era crollato il mondo addosso) che seppero nascondere ai miei occhi il dolore e la paura per fare spazio alla serenità d’animo e all’amore di cui avevo bisogno.
Arrivati al Rizzoli conobbi tutti i medici che mi avrebbero operata, tra cui il Professor Biagini.
Il giorno dell’operazione nevicava ed io adoravo la neve. Mia madre e mio padre mi salutarono piangendo prima di scendere in sala operatoria, perché, a mia insaputa, loro conoscevano le possibilità di come sarebbe potuta andare. Dopo 7 ore, mi riportarono su in reparto: ricordo solo di aver sgridato mia sorella perché aveva indosso le mie scarpe. In quel momento tutti capirono che stavo più o meno bene.
I giorni passarono tra caricature fatte ai medici e agli infermieri e le partite a carte con mio padre che sfinivo ogni giorno di più, ma lui, per quanto amore aveva da darmi, non ha mai detto di no.
Ricordo che una sera, era quasi mezzanotte, chiamai mio padre e mi feci portare due piatti di tortellini con la panna e lui, paziente, trovò un ristorante aperto a quell’ora e me li fece preparare.
Tornati a Roma, feci altri 3 cicli di chemio, assistita sempre dal mio inseparabile e fidato amico Jack, l’albero trasporta flebo. Eravamo inseparabili, non mi lasciava mai, neanche per andare in bagno!
Quando mi dimisero dall’IFO, feci 30 giorni di radioterapia di nuovo all’Umberto I.
Ho dei bellissimi ricordi di quell’anno trascorso. A settembre del 2001 feci una grande festa, a cui invitai parenti, amici, insegnanti, conoscenti, insomma tutti quelli che dovevano assistere alla mia vittoria!
Oggi, ogni momento che rivivo, quando penso a quei giorni, sorrido serenamente.
Continuai la mia vita, feci le mie prime esperienze, la scuola, il lavoro; i miei genitori si separarono l’anno successivo e, all’età di 15 anni, restai a vivere con mia sorella e, seguendo comunque gli studi, iniziai a lavorare. Mi fidanzai con un ragazzo che amai tantissimo, mi restava accanto in ogni momento.
Ad un controllo, incontrai so presa il Prof. Biagini, trasferitosi da Bologna.
Fui contenta di saperlo qui a Roma: chi meglio di lui avrebbe potuto seguire il mio caso?! Per anni continuai i periodici controlli, arrivando a farli una volta l’anno.
Nel giugno del 2011 avrei avuto l’ennesimo controllo, ma, fortunata mente, essendo nata un’amicizia con il Dottor Zoccali, scoprimmo in anticipo di qualche mese che la malattia si stava ripresentando imperterrita, con una metastasi polmonare. Ero andata a trovarlo casualmente in reparto, mostrandogli l’ultima tac che avrei dovuto portare al controllo: subito rimase immobile davanti al monitor del computer, dicendomi: “Mi dispiace Francesca, ma è cresciuto!” mi gelai all’istante, raccolsi tutte le mie forze mentre mi diceva di stare tranquilla e di aspettare poiché ne avrebbe parlato subito dopo l’ambulatorio con il Prof. Biagini.
Uscita da quella stanza corsi fuori l’ospedale, mi rifugiai in un angolo da sola, ed iniziai a piangere. Pensai che non avrei voluto rivivere di nuovo quell’esperienza, pensavo che non ce l’avrei fatta a sopportarlo, era più grande di me e mi ritrovavo di nuovo sola a combattere un male che proprio non vo leva lasciarmi in pace. Dopo 2 ore e mezza il Dott. Zoccali mi telefonò e mi chiese gentilmente di salire in reparto. Nello stesso tempo arrivò tempestivamente mio padre con la compagna, Manuela. Tornai a piangere di nuovo, non riuscivo a nascondere lo sconforto.
Insieme salimmo ed ebbi un colloquio fulmineo con il Dott. Zoccali ed il Prof. Biagini. Fu la prima volta che il Prof. Biagini si rivolgeva a me con quel suo tono deciso.
Mi disse che quel nodulo, che da anni dimorava in quel punto del mio corpo, aveva cambiato improvvisamente forma, crescendo leggermente. Decisero subito di operarmi. Il giorno seguente, sarei stata immediatamente ricoverata ed il mercoledì successivo operata.
Piansi ancora, non riuscii a trattenere le lacrime, non riuscivo a parlare, loro erano lì che mi guardavano. Chissà cosa avrà pensato il Prof. in quell’istante, forse che non ero abbastanza forte; ma io piangevo non perché dovevo essere operata, ma perché per la seconda volta la mia vita era in pericolo e tutto così in fretta, neanche il tempo di capire.
Tornai a casa non riuscendo neanche a guidare, preparai la valigia, informai mia madre e mia sorella e andai a dormire a casa di mio padre, non volevo restare sola. Quel giorno fu l’ultimo giorno che piansi.
Arrivato il momento del ricovero ero pronta ad affrontare tutto per la seconda volta, dovevo tirare fuori la forza che avevo avuto da bambina, e c’era, era proprio lì dentro di me.
Il giorno dell’operazione ero spaventata, avevo paura di dover perdere anche una parte del mio polmone, ma, grazie alla mia fami glia, che da sempre mi sostiene e mi dà la forza di lottare, scesi in sala operatoria con il sorriso, volendo togliere subito quella cosa che stava tentando di togliermelo.
Non ci riuscì!
Risalii dalla sala più orgogliosa di prima: avevo vinto io! Di nuovo! I giorni seguenti sono stati duri, i dolori erano forti, dovevo tirarmi su dal letto con una corda che avevo fatto legare ai piedi del letto, perché non potevo muovere un muscolo!
Cinque giorni di ospedale e fui dimessa.
Avevo voglia di riprendermi in fretta, di tornare alla mia vita.
I dottori erano gentili e gli infermieri dolcissimi. Il dott. Zoccali e il Prof. Biagini ogni tanto venivano a vedere come stavo.
Sotto consiglio del prof e della Dottoressa Ferraresi, di oncologia, andai successivamente a fare 10 cicli di radioterapia al Sant’Orsola di Bologna.
È stata dura questa volta. Ero consapevole di quello che stava succedendo. Il Prof. fu subito chiaro con me e fu la cosa migliore che potesse fare, trattarmi da per sona adulta.
È stato difficile accettare il sarcoma per la seconda volta, non avevo paura di morire, non ne ho mai avuta, ma avevo paura di crollare psicologicamente.
I medici hanno fatto del loro meglio e non smetterò mai di ringraziarli, ma il vero eroe sono io.
Ho combattuto con tutta me stessa, non cedendo alla paura di non farcela perché non ero forte abbastanza.
Caro lettore, ho voluto raccontarti la mia storia perché tu, come me, hai la forza per superare questo momento. Abbiamo dentro di noi il potere, di cui non tutti sono a conoscenza: amiamo Noi stessi!
Amiamo la nostra vita. Non dobbiamo permettere mai a nessuno di farci del male, tanto meno ad una malattia!
Oh lettore, circondati di persone che ti amano: sono un toccasana in questi momenti così difficili da digerire; guarda nei tuoi occhi la speranza che non si spegnerà mai finché continuerai a lottare.
Quando senti di non farcela, stilla al mondo intero la tua forza, dimostra a te stesso che niente può fermare i tuoi sogni!
Francesca
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